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Riflessioni sul Medioevo

  • Immagine del redattore: Francesca M. Pedullà
    Francesca M. Pedullà
  • 30 set 2014
  • Tempo di lettura: 3 min

Guardando Roma. Se si guarda dall'interno sembra di essere caduti in un cannocchiale temporale, dove nessun periodo prevale sugli altri e dove la prospettiva storica è data dalla naturale e necessaria successione di tempi e quindi di modi. Tra i mondi più affascinanti è il Medioevo, quel periodo che nessuno osa affrontare per paura di sollevare il polverone delle lacune documentarie, delle fonti non sempre certe e a volte tradizionalmente, ma non storicamente attestate. Così spesso ci avviciniamo al Medioevo come ad una bestia forastica, tutt'altro che addomesticata e da abbonire con carezze diffidenti e con sguardo guardingo. È per questo che ne amo le linee imperfette e l'incedere soprannaturale, al di sopra del piano di calpestio per entrare in quel tono soprannaturale che come gli ultravioletti, esiste al di fuori della percezione. La perfezione non è dell'uomo ma del divino trascendente e per questo alla creatura figlia e specchio di Dio non è dato di conoscere ciò che è essenzialmente divino. L'iconografia medioevale che si sviluppa lungo le pareti ed i catini delle chiese romane riflette quanto espresso, mediante uno stile dal carattere prevalentemente bidimensionale e attraverso un carattere esclusivamente paratattico volto a sottolineare la ieraticità dei soggetti. Nessun movimento, nessuna emozione, nessuna narrazione. Tutto sembra sospeso all'interno di una atmosfera dorata, al cui interno i segni in modo impersonale, si ripetono con un ritmo costante, senza carattere e vita. La domanda viene spontanea: come mai gli artefici medioevali usarono uno strumento così poco realistico per rappresentare il Verbo? Spesso si parla di perdita di abilità, di barbarizzazione del ductus, fino alla perdita del segno come effetto di realtà. Prendiamo ad esempio "La discesa al Limbo", affresco realizzato sul muro adiacente all'abside della chiesa paleocristiana della Basilica di S. Clemente a Roma, fa parte di quegli esempi che aiutano a comprendere l'essenza della pittura medioevale. La scena bipartita, presenta a destra la figura di Cristo intento a sottrarre l'anima umana dalle tentazioni del demonio che si appiglia ai vizi per portare l'umanità verso l'Inferno. La rappresentazione è carica del movimento di Cristo, il cui gesto è reso evidente dal mantello rialzato che suggerisce la repentinità della sua azione. Ma la profondità è assente e la linea vuole solo suggerire e non agire sul volume. Osservando questa scena si desume un impaccio nella resa volumetrica; forse una incapacità dovuta al declino dei canoni compositivi classici? Ebbene volgiamo il nostro sguardo a sinistra e scopriremo che in realtà il libro, Biblos è tridimensionale. Il codice miniato, preziosamente intarsiato e decorato di gemme, è reale. Come mai? La Bibbia è la via della salvezza attraverso cui l'umanità nel giorno del Giudizio ascenderà verso il Giudice supremo per partecipare della sua luce o essere gettata nei fuochi dell'Inferno. A cosa aspirava il consesso umano se non alla salvezza? Ecco che l'unico oggetto reale è la via della realizzazione finale. Da tutto questo desumiamo che la tecnica e lo stile sono caratteristiche di azione, decise e progettate al fine di rendere chiaro il messaggio sotteso dalla rappresentazione. Ogni stile ha un suo preciso scopo e viene utilizzato in modo consapevole da chi lo sceglie e non, come spesso si pensa, in modo automatico e passivo. Il Medioevo deve il suo fascino ad una presa di coscienza superiore e sottile che lascia spazio al sentimento religioso, sublime e irrazionale. Quanto amo il Medioevo.

 
 
 
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